La parabola del “Padre Misericordioso”

Rembrandt: Il Figliol Prodigo

Questa parabola di Gesù è forse più conosciuta come la “Parabola del Figlio Prodigo”. Ebbene a noi piace ricordarla da un altro punto di vista, ossia dal punto di vista del padre. Così si può ricordare come la “Parabola del Padre Misericordioso”. Questo racconto si trova nel Vangelo di Luca al capitolo 15:

CEI2008

Luca 15

11Disse ancora: "Un uomo aveva due figli.12Il più giovane dei due disse al padre: "Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta". Ed egli divise tra loro le sue sostanze.13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto.14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci.16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla.17Allora ritornò in sé e disse: "Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te;19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati".20Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.21Il figlio gli disse: "Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio".22Ma il padre disse ai servi: "Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi.23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa,24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato". E cominciarono a far festa.25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze;26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo.27Quello gli rispose: "Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo".28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo.29Ma egli rispose a suo padre: "Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici.30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso".31Gli rispose il padre: "Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo;32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato"".

Il pittore Rembrandt cattura la scena della parabola in un dipinto a olio su tela del 1668 intitolato “Ritorno del Figliol Prodigo”. Da Wikipedia:

La scena raffigura la conclusione della vicenda, ovvero il perdono del padre nei confronti del figlio pentito della propria condotta. Il giovane, vestito di stracci logori, è in ginocchio dinnanzi al padre, di cui ha sperperato le sostanze. L’anziano lo accoglie con un gesto amorevole e quasi protettivo. Sulla destra, osserva la scena un personaggio identificato col figlio maggiore, mentre sullo sfondo si distinguono due figure non ben identificate.

La luce scivola dai personaggi secondari per soffermarsi sulla scena principale e catturare così l’attenzione dell’osservatore, che si trova con gli occhi alla stessa altezza del figlio pentito, come se il pittore volesse suggerire un’identificazione tra finzione e realtà. Tuttavia, il particolare forse più importante di questo quadro, sono le mani del Padre misericordioso; se le si osservano attentamente possiamo notare che non sono uguali, ma sono una maschile ed una femminile. In questa rappresentazione non sono presenti donne poiché il “Padre misericordioso” che è il Dio che accoglie tutti, specialmente i peccatori redenti, non è solo il “nostro” Padre ma è anche la “nostra” Madre, Lui è il tutto.

Altro particolare notevole sono gli occhi del Padre, occhi di cieco; il Padre, Dio che ama l’uomo, ha consumato gli occhi nel guardare l’orizzonte in attesa del ritorno del figlio.

Il Dio misericordioso, immaginato da Luca e mirabilmente rappresentato in questo capolavoro di Rembrandt, rappresenta un salto impressionante nella modernità; la loro visione mistica contempla un Dio che perdona chi ha il coraggio di chiedere perdono invitando ad una visione più umana di religione. Al figlio maggiore, infatti, non basta aver “servito” il Padre, se non si rende conto di essere veramente “fratello” del peccatore (lo chiama “questo tuo figlio” nel dialogo col Padre) e se non riesce a cogliere la conversione ed il perdono per quello che è: un’occasione di festa per il ritorno alla vera vita.

https://it.wikipedia.org/wiki/Ritorno_del_figliol_prodigo_(Rembrandt)


L’autore Henri Nouwen è rimasto colpito da questo dipinto di Rembrandt, e nel 1992 scrisse un libro dal titolo “L’Abbraccio Benedicente” in cui effettua una meditazione sulle tematiche della parabola evangelica applicandola alla propria esperienza spirituale mentre prende spunto dal dipinto di Rembrandt:


Rembrandt: Il Figliol Prodigo

Rembrandt: Il Figliol Prodigo. Dipinto ad olio su tela 1668, Museo dell’Ermitage (San Pietroburgo)

Un incontro apparentemente insignificante con un poster raffigurante un particolare del Ritorno del figlio prodigo di Rembrandt ha messo in moto una lunga avventura spirituale che mi ha portato ad una nuova comprensione della mia vocazione e mi ha offerto nuova forza per viverla. Al centro di questa avventura ci sono un dipinto del diciassettesimo secolo e il suo artista, una parabola del primo secolo e il suo autore, e una persona del ventesimo secolo alla ricerca del significato della vita. La storia comincia nell’autunno del 1983 nella cittadina di Trosly, in Francia, dove stavo trascorrendo qualche mese presso L’Arche, una comunità che ha aperto una casa a persone con handicap mentali. Fondata nel 1964 da un canadese, Jean Vanier, la comunità di Trosly è la prima di più di novanta comunità che L’Arche ha diffuso in tutto il mondo. Un giorno andai a far visita alla mia amica Simone Landrien al piccolo centro di documentazione della comunità. Mentre parlavamo, il mio sguardo si posò su un grande poster affisso alla porta. Vidi un uomo, avvolto in un grande mantello rosso, che con tenerezza poggiava le mani sulle spalle di un ragazzo scapigliato, inginocchiato ai suoi piedi. Non riuscivo a distogliere gli occhi. Mi sentivo attratto dall’intimità tra le due figure, il rosso caldo del mantello dell’uomo, il giallo dorato della tunica del ragazzo, e la luce misteriosa che avvolgeva entrambi. Ma soprattutto furono le mani — le mani del vecchio — mentre toccavano le spalle del ragazzo a colpirmi interiormente in un punto dove mai ero stato raggiunto prima. Rendendomi conto che ormai non seguivo quasi più la conversazione, dissi a Simone: «Parlami del poster». Rispose: «Oh, è una riproduzione del Figlio prodigo di Rembrandt. Ti piace?». Continuai a fissare il poster e alla fine balbettai: «E bello, più che bello … mi fa venir voglia di piangere e di ridere allo stesso tempo … Non so dirti cosa provo mentre lo guardo, ma mi tocca profondamente». Simone disse: «Forse dovresti averne una copia tutta tua. Puoi comprarla a Parigi». «Si», risposi, «devo averne una copia». Quando ho visto per la prima volta il Figlio prodigo, avevo appena concluso uno spossante viaggio di sei settimane di conferenze attraverso gli Stati Uniti, invi­tando le comunità cristiane a fare tutto ciò che era loro possibile per impedire la violenza e la guerra nell’America Centrale. Ero stanco morto, al punto da non riuscire quasi a camminare. Ero ansioso, solo, inquieto e molto bisognoso. Durante il viaggio mi ero sentito una persona che si batte con forza per la giustizia e la pace, capace di affrontare senza paura il mondo delle tenebre. Adesso che tutto era finito, mi ritrovavo come un piccolo, vulnerabile bambino desideroso soltanto di trascinarsi nel grembo di sua madre e di piangere. Svaniti gli applausi o i fischi delle folle, provavo una solitudine devastante e mi sarei arreso facilmente alle voci allettanti che promettevano riposo sia alle emozioni che al fisico. Fu in queste condizioni che m’imbattei per la prima volta nel Figlio prodigo di Rembrandt sulla porta dell’ufficio di Simone. Quando lo vidi, il mio cuore ebbe un sobbalzo. Dopo il mio lungo, logorante viaggio, il tenero abbraccio tra padre e figlio esprimeva tutto ciò che desideravo in quel momento. Ero veramente il figlio stremato da lunghi viaggi; volevo essere abbracciato; stavo cercando una casa dove sentirmi al sicuro. Il figlio che torna a casa era tutto ciò che ero io e tutto ciò che volevo essere. Per tanto tempo mi ero spostato da un luogo all’altro: a incontrare persone, scongiurare, ammonire e consolare. Adesso desideravo solo riposare al sicuro in un luogo dove provare un senso di appartenenza, un luogo dove potermi sentire a casa. Molte cose sono accadute nei mesi e negli anni che seguirono. Anche se l’estrema stanchezza mi aveva abbandonato ed ero tornato alla vita dell’insegnamento e ai miei viaggi, l’abbraccio di Rembrandt è rimasto impresso nella mia anima molto più profondamente di qualsiasi altro sentimento temporaneo di origine emotiva. Mi aveva messo in contatto con qualcosa, dentro di me, che sta molto al di là degli alti e bassi di una vita movimentata, qualcosa che rappresenta l’incalzante struggimento dello spirito umano, il desiderio ardente di un ritorno finale, di un inequivocabile senso di sicurezza, di una dimora stabile. Sebbene fossi impegnato con molte persone, coinvolto in molti problemi e frequentassi molti luoghi, il ritorno a casa del figlio prodigo stava con me e continuava persino ad assumere sempre più significato nella mia vita spirituale. Il forte desiderio di una casa stabile, reso cosciente dal dipinto di Rembrandt, diventava sempre più profondo e forte, facendo in qualche modo del pittore stesso un compagno e una guida fedeli. Due anni dopo aver visto per la prima volta il poster di Rembrandt, ho dato le dimissioni dall’insegnamento alla Harvard University e sono tornato a L’Arche di Trosly per trascorrervi un anno intero. Scopo di questo trasferimento era di stabilire se ero o non ero chiamato a vivere una vita con gli handicappati mentali in una delle comunità de L’Arche. Durante quell’anno di transizione, mi sono sentito particolarmente vicino a Rembrandt e al suo Figlio prodigo. Dopo tutto, stavo cercando una nuova casa. Avevo l’impressione che il mio compatriota olandese mi fosse stato assegnato come compagno speciale. Prima della fine di quell’anno, avevo deciso di fare de L’Arche la mia nuova casa e di raggiungere Daybreak, la comunità de L’Arche di Toronto.

[…]

manipadreDurante l’anno, dopo aver visto per la prima volta il Figlio prodigo, il mio viaggio spirituale è stato segnato da tre fasi che mi hanno aiutato a individuare la struttura della mia storia. La prima fase è stata la mia esperienza di essere il figlio più giovane. I lunghi anni di insegnamento universitario e il mio intenso coinvolgimento nelle questioni del Sud e del Centro America mi avevano lasciato la sensazione di essermi perduto. Avevo girato in lungo e in largo, incontrato persone di condizioni di vita e di convinzioni del tutto diverse, ed ero entrato a far parte di molti movimenti. Alla fine ho però avvertito di essere senza casa e molto stanco. Quando ho visto la tenerezza con cui il padre toccava le spalle del figlio più giovane e lo teneva vicino al cuore, ho sentito profondamente di essere quel figlio perduto e ho desiderato tornare, come lui, per essere abbracciato in quel modo. Per un lungo periodo ho pensato a me stesso come al figlio prodigo sulla via di casa, pregustando il momento di essere accolto a braccia aperte da mio Padre. Poi, in modo del tutto inatteso, qualcosa nella mia prospettiva è mutata. Dopo l’anno trascorso in Francia e la visita all’Ermitage di San Pietroburgo, i sentimenti di disperazione che mi avevano fatto identificare così fortemente con il figlio più giovane si sono come spostati sullo sfondo della mia coscienza. Mi ero finalmente deciso ad andare a Daybreak di Toronto e, come risultato, mi sentivo più fiducioso di prima. La seconda fase nel mio viaggio spirituale ebbe inizio una sera mentre parlavo del dipinto di Rembrandt con Bart Gavigan, un amico inglese che nell’ultimo anno aveva avuto modo di conoscermi molto bene. Mentre spiegavo a Bart quanto fossi riuscito a identificarmi con il figlio più giovane, lui mi guardò intensamente e mi disse: «Mi chiedo invece se tu non sia piuttosto come il figlio maggiore». Con queste parole aveva aperto un nuovo orizzonte dentro di me. Francamente, non avevo mai pensato a me stesso come al figlio maggiore, ma una volta che Bart mi ebbe messo di fronte a questa possibilità, una folla di pensieri irruppe nella mia mente. il-figlio-prodigo-il-fratello-maggiore2Per il semplice fatto che sono per davvero il figlio maggiore nella mia famiglia, mi sono subito reso conto di quanto la mia vita fosse stata ligia al dovere. A sei anni già volevo diventare prete e non ho mai cambiato idea. Sono nato, sono stato battezzato, cresimato e ordinato nella medesima chiesa e sono sempre stato obbediente ai miei genitori, insegnanti, vescovi e al mio Dio. Non sono mai scappato di casa, non ho mai sprecato il mio tempo e il mio denaro nella ricerca del piacere e non mi sono mai perduto in «dissipazioni e ubriachezze». Per tutta la vita sono stato piuttosto responsabile, tradizionalista e legato alla famiglia. Ma, con tutto ciò, posso in realtà essermi perduto proprio come il figlio più giovane. Improvvisamente mi sono visto in modo del tutto nuovo. Ho visto la mia gelosia, la mia rabbia, la mia permalosità, la mia caparbietà, il mio astio e soprattutto la sottile convinzione di essere sempre nel giusto. Ho visto quanto mi lamentavo e quanto i miei pensieri e sentimenti fossero rosi dal risentimento. Per un certo periodo mi è stato impossibile capire come avessi potuto pensare a me stesso come al figlio più giovane. Ero di certo il figlio maggiore, ma perduto come il fratello minore, anche se ero rimasto a “casa” tutta la vita. Avevo lavorato moltissimo nell’azienda agricola di mio padre, ma non avevo mai gustato pienamente la gioia di essere a casa. Invece di essere grato per tutti i privilegi che avevo ricevuto, ero diventato una persona astiosa: geloso dei miei fratelli e sorelle più giovani che avevano affrontato tanti rischi ed erano sempre accolti calorosamente. Durante il mio primo anno e mezzo a Daybreak, l’osservazione penetrante di Bart continuò a guidare la mia vita interiore. Altro doveva accadere. Nei mesi successivi alla celebrazione del trentesimo anniversario della mia ordinazione sacerdotale entrai gradualmente in notti interiori molto oscure e cominciai a sperimentare un’immensa angoscia spirituale. Giunsi al punto di non sentirmi più sicuro nemmeno nella mia comunità e dovetti partire per cercare un qualche aiuto alla mia lotta e impegnarmi direttamente alla mia guarigione interiore. I pochi libri che potei portare con me erano tutti su Rembrandt e sulla parabola del figlio prodigo. Mentre vivevo in un luogo piuttosto isolato, lontano dagli amici e dalla comunità, trovai grande conforto nel leggere la tormentata vita del grande pittore olandese e nel conoscere meglio l’itinerario straziante che, alla fine, lo rese capace di dipingere questa opera sublime. Per ore ho guardato gli splendidi disegni e i dipinti da lui creati in mezzo a tutte le sue ricadute, disillusioni e afflizioni e sono giunto a comprendere come dal suo pennello fosse emersa la figura di un uomo anziano quasi cieco che cinge il figlio in un gesto di pietà che tutto perdona. Un uomo deve essere morto molte volte e aver pianto molte lacrime per aver dipinto un ritratto di Dio in tale umiltà. È stato durante questo periodo di immensa sofferenza interiore che un’amica pronunciò la parola che avevo più bisogno di sentire aprendo così la terza fase del mio viaggio spirituale. Sue Mosteller, che stava con la comunità di Daybreak dai primi anni Settanta e aveva svolto un ruolo importante nel condurmi ad essa, mi aveva dato un sostegno indispensabile quando le cose erano diventate difficili, e mi aveva incoraggiato a lottare affrontando tutto ciò che era necessario soffrire per raggiungere la vera libertà interiore. padreQuando venne a farmi visita nel mio «ermitage»* e parlò con me del Figlio prodigo, disse: «Che tu sia il figlio più giovane o il figlio maggiore, ti devi rendere conto di essere chiamato a diventare il padre». Le sue parole mi colpirono come un fulmine perché, dopo tutti gli anni che ero vissuto con il dipinto e avevo guardato l’uomo anziano stringere il proprio figlio, non mi era mai passato per la mente che fosse il padre ad esprimere più pienamente la mia vocazione nella vita. Sue non mi lasciò molte possibilità di protestare: «Hai cercato amici per tutta la vita; hai desiderato ardentemente affetto da quando ti conosco; ti sei interessato a migliaia di cose; hai chiesto attenzione, apprezzamento e affermazione a destra e a sinistra. E venuto il tempo di affermare la tua vera vocazione — essere un padre che può accogliere con calore i propri figli senza far loro alcuna domanda e senza volere niente in cambio. Guarda il padre nel tuo dipinto e saprai chi sei chiamato a essere. Noi, a Daybreak, e la maggior parte delle persone intorno a te, non abbiamo bisogno di te come un buon amico e nemmeno come un fratello generoso. Abbiamo bisogno di te come un padre disposto a rivendicare per sé l’autorità della vera misericordia». Guardando il vecchio con la barba nel suo ampio mantello rosso, ho opposto profonda resistenza al pensiero di vivere personalmente quel ruolo. Mi sono sentito pronto a identificarmi con il figlio più giovane, scialacquatore, o con il figlio maggiore, roso dal risentimento, ma l’idea di essere come quell’uomo anziano che non aveva niente da perdere perché aveva perduto tutto, e aveva soltanto da dare, mi ha quasi terrorizzato. Eppure, Rembrandt morì a sessantatré anni ed io sono molto più vicino a quell’età che a quella di ciascuno dei due figli. Rembrandt era stato pronto a mettersi al posto del padre; perché io no? L ’anno e mezzo che seguì la provocazione di Sue Mosteller è stato il periodo in cui ho cominciato a rivendicare la mia paternità spirituale. E stata una lotta lenta e ardua e qualche volta sento ancora il desiderio di rimanere figlio e di non crescere mai. Ma ho gustato anche la gioia immensa di vedere i figli tornare a casa e posare le mani su di loro in un gesto di perdono e benedizione. figlio_piediSono giunto a sperimentare, seppure in piccola parte, ciò che significa essere un padre che non fa domande e vuole solo accogliere con calore i propri figli. Tutto ciò che ho vissuto dal mio primo incontro con il poster di Rembrandt mi ha dato non solo l’ispirazione a scrivere questo libro, ma ne ha suggerito anche la struttura. Prima rifletterò sul figlio più giovane, poi sul figlio maggiore e infine sul padre. Poiché, in realtà, io sono il figlio minore, sono il figlio maggiore e sto per diventare il padre. E per voi che vorrete fare con me questo viaggio spirituale, spero e prego che possiate scoprire dentro voi stessi non solo il figlio perduto di Dio, ma anche il padre e la madre compassionevoli qual è Dio.

(tratto dal Prologo e dall’Introduzione de “L’Abbraccio Benedicente”, Henri Nouwen 1992)

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