Le due vie del destino

Le due vie del destino – The Railway Man è un film del 2013 diretto da Jonathan Teplitzky con protagonisti Colin Firth e Nicole Kidman. La pellicola è l’adattamento cinematografico dell’autobiografia omonima di Eric Lomax. Il film è stato presentato in anteprima mondiale il 6 settembre 2013 al Toronto International Film Festival.

TRAMA

Eric Lomax è un ufficiale britannico catturato durante la Seconda Guerra mondiale dai giapponesi che hanno invaso Singapore. Mandato in un campo di prigionia per lavorare alla costruzione della famigerata Ferrovia della morte, tra la Thailandia e la Birmania, Lomax è testimone e vittima di inimmaginabili sofferenze a cui i prigionieri sono sottoposti. Anni più tardi, Lomax continua a soffrire per il trauma psicologico derivante dalle sue drammatiche esperienze, perseguitato in particolare dall’immagine del suo torturatore, un giovane ufficiale giapponese. L’incontro con Patti, con cui si sposa, sembra sbloccare la sua psiche, ma il male subito torna presto prepotentemente a galla. Patti decide allora di lasciar tornare il marito in Thailandia nei luoghi delle sue sofferenze, per confrontarsi con il suo carceriere.

RECENSIONE

(tratta da http://langolo-del-sorriso.blogspot.it/2015/09/le-due-vie-del-destino-riflessioni-sul.html, autore Nigel Davemport)

Una storia straordinaria, a tratti dura e violenta, ma alla fine istruttiva ed edificante come poche.

Eccellente la prova di Colin Firth, perfetto nei panni di Eric Lomax, il reduce di guerra ossessionato dal ricordo della prigionia e delle umiliazioni subite; il suo stile, tipicamente malinconico, si sposa perfettamente con i tormenti del personaggio cui dà vita.

Ammirevole pure Nicole Kidman, che interpreta con equilibrio e misura il ruolo di Patti, compagna discreta e comprensiva di Eric Lomax; così com’è lodevole la prestazione di Hiroyuki Sanada, perfettamente calato nei panni dell’ex-aguzzino ma che, nel rivedere Lomax, mostra un pentimento sincero, che non è frutto della paura, ma di una profonda revisione del proprio operato.

Il film, formalmente impeccabile e ben recitato, fa registrare un leggero calo di ritmo nei frequenti flashback, che riportano lo sfortunato Lomax alle vicende del passato.

Naturalmente, i critici radical shic e i sostenitori del giustizialismo a oltranza (quello che oggi va tanto di moda e che fa cassa) hanno scritto che il film è retorico e intriso di buonismo.
Ma costoro ignorano o fingono d’ignorare che esso è tratto dal libro autobiografico: The Railway Man, di Eric Lomax, un reduce della guerra thailandese, realmente esistito, che ha lasciato una traccia della propria esperienza.
La pellicola quindi non è frutto dell’immaginazione di questo o quell’autore, ma è basata su una storia vera, vissuta sulla pelle di un uomo in carne ed ossa, un individuo che dopo aver patito sofferenze indicibili, si ritrova faccia a faccia col suo torturatore ma, invece di punirlo, lo perdona, ribaltando così la logica della vendetta, una logica emotiva e brutale, sulla quale poggia lo stesso istituto della pena di morte.

E’ dunque, quella del film, una vicenda di perdono, un perdono che non va inteso come pedissequa applicazione di un precetto, ma come forma terapeutica, ovvero come unico modo possibile per liberarsi definitivamente dall’odio e da eventuali rimorsi derivanti dalla consumazione della vendetta, e diviene perciò straordinario strumento di catarsi.
Il film ha avuto un’ eco sostanzialmente positiva, ma è stato pure denigrato, perché testimonia un atto di misericordia, a cui forse non siamo più avvezzi, di fronte al quale restiamo sorpresi, se non addirittura sbalorditi.
Tutto ciò anche perchè il cinema ci ha abituato a storie forti, sensazionali, sempre più shoccanti, in linea con le tendenze d’“exploitation”, in cui brutalità, gusto del macabro e del grottesco la fanno da padroni, mentre gli autori, giustificano i propri eccessi con deboli e opinabili ragioni.
Nei film moderni, insomma, si è perso il senso della misura, perché i loro protagonisti (o se si preferisce: i loro eroi) sono spavaldi, invincibili, spietati e spesso privi di una dimensione umana.

Nella realtà, Eric Lomax ha avuto modo di incontrare il suo torturatore giapponese e ha avuto modo di vivere con lui un’esperienza di riconciliazione, che viene raccontata nel documentario The Railway Man che ha preceduto il film.


Si pone sulla stessa linea della misericordia e del perdono il film diretto da David L. Cunningham del 2001 dal titolo “Fight for Freedom (To End All Wars)” con protagonisti Robert Carlyle, Kiefer Sutherland and Sakae Kimura. Anche questo film racconta di un manipolo di soldati statunitensi, presi prigionieri in Thailandia dai soldati giapponesi durante la Seconda guerra mondiale. I soldati statunitensi capeggiati dal capitano Gordon sono considerati parte di una razza inferiore e devono fare i conti di un lavoro massacrante, cioè la costruzione della nuova linea ferroviaria. La storia è basata sull’autobiografia di Ernest Gordon e racconta delle esperienze di fede e di speranza degli uomini imprigionati. L’autobiografia fu in un primo momento pubblicato con il titolo Through the Valley of the Kwai, e poi più tardi con il titolo Miracle on the River Kwai (da non confondersi con il libro The Bridge over the River Kwai di Pierre Boulle). Infine il libro di Gordon è stato ripubblicato con il titolo To End All Wars per avere lo stesso titolo del film. I soldati catturati e torturati trovano la loro vera libertà nel perdono dei loro nemici.

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